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Com'è l'accento di NAPOLI?

April 10, 2024

Trascrizione

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Napoli è una delle città più belle e popolose d’Italia, ma come parlano i napoletani? L’accento napoletano è uno degli accenti italiani più conosciuti, ma anche di solito uno dei più difficili da capire per gli studenti di italiano. E dunque, quali sono le caratteristiche che lo rendono così riconoscibile?

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Trascrizione con glossario e audio isolato (Podcast Italiano Club)

Partiamo dalla solita avvertenza: parlerò di italiano di Napoli e non di napoletano. L’italiano regionale o locale non va confuso con il dialetto o lingua regionale, che è una lingua a sé stante vera e propria, diversa dall’italiano, mentre l’italiano regionale è la variante locale della lingua nazionale. Naturalmente l’italiano regionale è influenzato dal dialetto, ma i due concetti restano comunque ben distinti, sebbene anche gli italiani stessi li confondano. Poi va anche detto che le due lingue possono mischiarsi, a volte anche nella stessa frase, e a Napoli questo succede spesso.

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Ma vediamo quindi che cosa caratterizza l’accento napoletano in italiano. Molti di questi fenomeni si applicano più in generale all’area campana e anche all’intero alto sud, anche se ovviamente con delle differenze.

Iniziamo con le vocali. Nell’italiano di Napoli abbiamo sette fonemi come in italiano neutro o standard: /a/ /ɛ/ /e/ /i/ /ɔ/ /o/ /u/ (vi rimando a questo video per maggiori dettagli), ma ci sono alcune differenze.

Innanzitutto, una caratteristica peculiare è la pronuncia effettiva di /a/, che si pronuncia come nel neutro [a] quando si trova in una sillaba chiusa, cioè che termina per consonante (come pas-ta o can-to) ma si pronuncia più arretrata (qualcosa come [ɑ]; lo stesso suono dell’inglese “f[ɑ]ther”, per intenderci) in sillabe aperte, cioè che terminano per vocale (come ca-sa o ma-re).

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Un altro fatto piuttosto particolare e riconoscibile del napoletano è che in una pronuncia rapida o più, diciamo, “napoletaneggiante” qualsiasi /o/ o /e/ (e a volte anche /a/) può pronunciarsi come uno schwa, ovvero quella vocale indistinta che troviamo per esempio in inglese (“about”), cioè [ə] [ə]. In questo è evidente l’influenza del napoletano, dove questa vocale è comunissima. Per esempio, Napoli, in napoletano, si dice Napələ.

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Un altro elemento molto riconoscibile riguarda i gruppi /jɛ/ ie e /wɔ/ uo di parole come ieri e uomo. Sono tradizionalmente definiti «dittonghi», cioè sequenze di due vocali, ma in realtà lo sono solo in senso grafico perché, dal punto di vista della pronuncia, il primo suono non è una vocale ma qualcosa di più simile a una consonante, qualcosa come /j/, /w/. Comunque, a Napoli, -ie- è pronunciato in molti casi trasformando quella E aperta in una E chiusa, e quindi [je]. Avremo dunque p[je]di, v[je]ni, n[je]nte al posto di p[jɛ]di, v[jɛ]ni e n[jɛ]nte.

Una cosa analoga succede per uo /wɔ/ del neutro, che diventa [wo]: uomo [‘womo], suono, ruota.

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C’è un'ultima cosa importante da dire quanto alla distribuzione di e e o, che è un po’ un casino in tutta Italia. Come abbiamo visto, il napoletano, come l’italiano neutro, ha due suoni possibili per queste due lettere, ma in molti casi è normale che nelle sillabe toniche, o accentate, si usino quelli aperti (/ɛ/, /ɔ/) dove il neutro avrebbe quelle chiusi (/e/, /o/), così come anche il contrario. Per esempio:

In queste parole si usa /e/ in napoletano al posto del neutro /ɛ/: collega, prendere, ingegnere, Irene.

In queste altre si usa /ɛ/ al posto del neutro /e/: scemo, veramente, momento, mentre, verde, vero, fetta.

In queste si ha /o/ al posto di /ɔ/: può, sposa, ginocchio, arrosto.

E in queste al contrario, /ɔ/ al posto di /o/: dopo, forse, torta, ponte, bisogno

Ovviamente ci possono essere variazioni individuali e locali: se siete napoletani o campani fatemi sapere voi come le dite.

Se impari l’italiano e ti piacciono questi video sugli accenti regionali, probabilmente t’interessano pronuncia e accenti dell’italiano. E ci sta, dopotutto ci sarà un motivo se così tante persone ritengono la pronuncia dell’italiano così bella. La pronuncia nell’apprendimento di una lingua, come dico sempre, è molto importante, e purtroppo non le dedichiamo la giusta attenzione. Parte del problema è che non sappiamo esattamente come fare, come migliorare e pochi insegnanti hanno le competenze necessarie per aiutarci a capirci qualcosa.

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Passiamo ora alle consonanti. Molti dei tratti del napoletano sono comuni a tanti altri accenti del centro-sud.

Il fonema /b/, quando viene dopo una vocale si pronuncia sempre rafforzato, come se fosse una doppia B: roba [ˈrɔbba], abile [ˈabbile], libro [ˈlibbro]; anche tra due parole come in “Ti voglio [bb]ene” o “una [bb]ella [bb]ambina”. Questa è una caratteristica diffusa dal Lazio in giù.

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Lo stesso vale per /ʤ/, di “gioco” e “giro”, che dopo una vocale si raddoppia sistematicamente: “a[ʤʤ]ile”, “fa[ʤʤ]ioli”, “cu[ʤʤ]ino” o anche tra due parole, come “la [ʤʤ]ente” o “i [ʤʤ]ochi”.

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Per /ʧ/ dopo una vocale, come nella maggior parte degli accenti del centro-sud, è frequente [ʃ] non lunga: “recente” può essere “re[ʃ]ente”, “facile” può pronunciarsi “fa[ʃ]ile”; “la cena” sarà “la [ʃ]ena”.

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Altra caratteristica molto meridionale, ma che abbiamo visto anche per il romano: i fonemi /p/, /t/, /k/, quando seguono una vocale, vengono sonorizzati in modo più o meno marcato. Che significa? Significa che da consonanti sorde quali sono (cioè pronunciate senza vibrazione delle corde vocali, [p]) diventano più simili a [b], [d], [g], consonanti sonore (cioè, pronunciate con una vibrazione delle corde vocali: [b]). Tipicamente in napoletano sono una via di mezzo tra sordo e sonoro, in realtà. Sonorizzate, appunto. Qualcosa tipo [b̥], [d̥], [ɡ̊]. Avremo per esempio: “di [b̥]ro[b̥]osi[d̥]o”, “a[b̥]ri[d̥]e”, “ami[ɡ̊]o”.

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Il grado di sonorizzazione (cioè, quanto più simile a B, D, G si pronunciano P, T, C) varia a seconda delle zone e dei gruppi sociali. Questo effetto è molto marcato dopo consonanti nasali, e quindi avremo qualcosa come “cam[b̥]agna”, o “tron[ɡ̊]o”.

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Ora, momento culturale: c’è un famoso meme che imita quella che sarebbe una sorta di pronuncia meridionale della parola “complotto” scrivendola così: “gombloddo”. Ecco però quella doppia D è impossibile: con le doppie non c’è la sonorizzazione, quindi al massimo diremo “un[ɡ̊]om[b̥]lotto”, con delle belle T. E sì, sono una persona molto divertente alle feste.

Un’altra caratteristica che l’accento di Napoli condivide con il Centro-Sud è che non c’è distinzione fonematica fra /s/ e /z/, i suoni associati alla lettera S. Per dirla in maniera semplice, nella mente dei parlanti sono la stessa cosa. La realizzazione effettiva è spesso [s], come frequente nel meridione, e quindi “ca[s]a” e “scu[s]a”.

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Ma anche in questo caso abbiamo fenomeni di sonorizzazione variabile, come per /p/, /t/ e /k/, per cui spesso il risultato effettivo, davanti a vocale, è a metà tra [s] e [z], qualcosa come [z̥]: “la [z̥]ituazione”, “una [z̥]erata [z̥]erena”. Anche qui, un po’ come per il romano.

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Pronunciare la S come [z] è qualcosa di percepito come più prestigioso: cercando di parlare in maniera meno marcata e più sorvegliata, come dicono quelli bravi, un napoletano tenderà a optare per “scu[z]a” piuttosto che “scu[s]a”, probabilmente anche per un’influenza del Nord.

Arriviamo a un tratto tipico dell’accento napoletano e, personalmente, il mio preferito. Nell’italiano neutro la S che precede una consonante segue delle regole precise: si pronuncia [s] o [z] a seconda della consonante che segue. Se la S precede una consonante sonora, va pronunciata sonora anch’essa, /z/, come in “[z]baglio”, “[z]velare”, “[z]garrare”. Se precede una consonante sorda, va pronunciata sorda, sì, /s/, come in “[s]perare”, “[s]forzo”, “[s]cusa”.

Ora l’accento napoletano pronuncia la S secondo questo meccanismo davanti a /t/, /d/, /l/, /r/, /n/, quindi per esempio: [s]tato, [z]dentato, [z]lego, [z]rotolare e [z]nervante; invece, ha [ʃ] davanti a /p/, /f/, /k/, e addirittura [ʒ] (come nell’inglese “pleasure” o “je” in francese) davanti a /b/, /m/, /v/, /g/, e quindi: [ʃ]pinta, [ʃ]fida,  [[ʃ]cusa, [ʒ]mette, [ʒ]velare, [ʒ]guaiato.

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Questo avviene in una pronuncia più marcata. Negli accenti meno forti, specialmente nel parlato dei giovani, questa caratteristica viene spesso evitata: [s]pinta, [z]mette. In generale, mi sembra che i napoletani siano abbastanza consci di questo tratto e tendano a censurarlo quando vogliono neutralizzare il loro accento.

Una curiosità: molti italiani che non sanno imitare l’accento di napoli spesso mettono queste [ʃ] e [ʒ] anche dove un napoletano non le metterebbe mai. E quindi dicono per esempio “*[ʃ]tato” o “*que[ʃ]to”, impossibili per un napoletano: in base alla regola che abbiamo visto è “[s]tato” e “que[s]to”.

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Basta imitazioni fatte male del napoletano; e di nuovo, sono una persona spassosissima alle feste.

Rimaniamo sulla S: quando viene dopo una /l/ o /r/ (e quindi /ls/ o /rs/) o una nasale (/ns/) è pronunciata con una sonorizzazione (che ormai conosciamo), ma anche a volte con una affricatizzazione, anche qui in modo piuttosto variabile. Che diavolo significa? Che si pronuncerà qualcosa che sta tra [s], [ʦ] e [ʣ]: quindi “fal[s]o” o “fal[ʦ]o” o “fal[ʣ]o”; “pen[s]o”, “penl[ʦ]o”, “penl[ʣ]o”. Anche qui viene in nostro soccorso un altro meme: le perzone falze, con queste Z che vengono scritte per imitare una caratteristica fonetica comune in tutto il Centro-Sud.

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La Z è un’altra lettera la cui pronuncia è molto variabile in tutta Italia. Per la Z iniziale di parola, in napoletano si trovano sia /ʦ(ʦ)/ sorda sia /ʣ(ʣ)/ sonora come nel neutro; invece, nell’italiano di Napoli oggi c’è una tendenza a pronunciare questa Z iniziale sempre come /ʣ(ʣ)/, come al Nord: avremo quindi “[ʣ]ucchero”, “[ʣ]appa”, “[ʣ]io”, laddove in altre parti d’Italia si può avere anche “[ʦ]ucchero”, “[ʦ]appa” e “[ʦ]io”.

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Per la Z che viene dopo una consonante è comune una vera e propria /ʣ/ per /ʦ/, quindi “cal[ʣa]” o “al[ʣ]are”, o qualcosa di simile.

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Vediamo un altro tratto tipico del napoletano. Come sapete, in italiano in certe sequenze la lettera I è muta, non si pronuncia, e funziona in pratica come un segno diacritico, cioè un segno che modifica il suono della lettera o delle lettere precedenti; per esempio in “ciao” /ˈʧao/ (senza la I avremmo “*cao” = /ˈkao/) o “frangia” /ˈfranʤa/ (senza la i avremmo “franga” = /ˈfranɡa/), quella I, come sentite, non si pronuncia; in altri casi quella i si spiega con l’etimologia, la storia della parola, ma anche in quel caso che non modifica la pronuncia, come in “cielo” o “scienza”.

Che cosa c’entra tutto ciò con l’accento napoletano? Beh, un suo tratto che suona molto particolare rispetto all’italiano neutro è la possibilità di pronunciarla, quella I. E quindi: i cieli [i ˈʃjeˑli] [i ˈʧj-], frangia [-ʤjʌ], scienza [ʃiˈenːʣʌ], [-ʣ̥ʌ].

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Proseguiamo. Spesso i gruppi /nʧ/ e /nʤ/ si possono realizzare uguali: per cui “frangia” si può pronunciare come… Francia. Quindi, “fran[ʤ]a”.

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La consonante /l/ davanti a un’altra consonante (anche un’altra /l/) si velarizza, quindi assume una qualità “scura”: molto, palla. Anche se (e questa è una mia osservazione, non l’ho trovata nelle fonti che ho consultato) a me sembra che questa [ɫ] scura sia possibile anche in altre posizioni, non solo di fronte ad una consonante. 

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La laterale palatale /ʎ(ʎ)/, il suono di gli, spesso si pronuncia come nel neutro, [ʎʎ], ma non è rara una pronuncia come [jj]: guaglione [ɡwʌʎˈʎoˑʊnɜ], [-jˈj-], e secondo me anche qualcosa come [ʝ] con un suono più simile allo spagnolo “ayer”.

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E il raddoppiamento fonosintattico, quel fenomeno per cui in italiano certe consonanti raddoppiano all’incontro tra parole, come in “a mme”, “che cc’è”, “caffè ffreddo?” Esiste anche in napoletano, come in generale nel centro-sud, ma anche in questo l’accento napoletano ha dei suoi meccanismi diversi dal neutro, con oscillazioni piuttosto complesse da riassumere. Ci sono dei raddoppiamenti in più per certe parole, in meno per certe altre, anche se in generale si fa un po’ di meno che nel toscano o nel romano.

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Infine, ci sono altri tratti che oggi sono sentiti come caratteristici di un italiano “basso”, per cui spesso i napoletani stessi tendono a evitarli:

(1) L’assimilazione di alcune consonanti davanti a certe consonanti, ovvero la loro trasformazione nella consonante che segue: “arbitro” pronunciato “a[bb]itro”, come se avesse due B e non “rb”; ma anche “Ge[mm]ania” al posto di “Germania” o “so[pp]resa” al posto di “sorpresa”. Una cosa simile può succedere con la N finale di “non”: “non dico” diventa “no[dd]ico”.

(2) L’inserimento di una vocale per rendere più facili certe sequenze di consonanti difficili, come in “psichiatra”, con ps- iniziale che è piuttosto difficile, e diventa qualcosa tipo “p[i]sichiatra”. Oppure “tecnico”, che diventa “te[kkə]nico” e “ex” che diventa “e[kkə]s”.

E questa era una carrellata dei principali tratti fonetici dell’accento napoletano in italiano. Naturalmente l’accento locale varia rapidamente nello spostarsi da un luogo all’altro, e quindi ci sono somiglianze ma anche differenze fra i tratti caratteristici di Napoli e delle altre città o zone della Campania. Siete campani? Scrivete nei commenti quali sono i caratteri del vostro accento, se è simile o diverso rispetto a quello di Napoli. E fatemi sapere se vi ritrovate nella descrizione che ho appena fatto: è possibile che qualcosa non vi torni, siccome molti di questi fenomeni sono molto variabili anche individualmente o socialmente e non di certo scritti nella pietra. Se siete stranieri, fatemi sapere se vi piace l’accento napoletano e se avete difficoltà a capirlo.

E questo è tutto. Grazie per aver visto questo video: ti lascio qui una playlist con tutti i miei video su pronuncia e accenti italiani e qui il mio corso di pronuncia se vuoi capire che cos’è l’italiano neutro e lavorare a migliorare la tua pronuncia. Grazie anche a tutte le persone napoletane e campane che mi hanno aiutato con questo video, i loro nomi sono in descrizione.

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