L’importanza del referendum nella storia d’Italia
In questo episodio di livello intermedio-avanzato, esploriamo i referendum più importanti della storia della Repubblica Italiana: il referendum istituzionale del 1946 che scelse la Repubblica, i referendum su divorzio e aborto degli anni '70-'80, e i recenti casi di mancato raggiungimento del quorum. Scopriremo come questi momenti di democrazia diretta abbiano plasmato l'Italia moderna e cosa rivelino sulla mentalità degli italiani.
Bentornato o bentornata su Podcast Italiano, un podcast per imparare l’italiano attraverso contenuti interessanti e autentici. Questo podcast, come sai, affronta sempre argomenti diversi: sociali, culturali, storici e, solo occasionalmente, politici. Non perché la politica non sia importante, ma perché è un argomento che tende a dividere. L’idea alla base di questo podcast, invece, è quella di unire, di usare la lingua italiana per farti scoprire e conoscere l’Italia in tutte le sue sfumature.
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Trascrizione interattiva dell'episodio
Ma, in fondo, cosa c’è di meglio della politica per conoscere veramente un Paese? Ad esempio, quale modo migliore di conoscere la mentalità italiana se non osservare i risultati dei referendum? I referendum sono infatti occasioni importantissime, in cui i cittadini devono scegliere concretamente, con un “sì” o “no”, quale piega deve prendere il futuro del Paese. E, analizzando quante persone e quali fasce d’età votano a favore o a sfavore di qualcosa, possiamo cogliere, capire molto più della semplice opinione politica della maggioranza: possiamo capire i valori, le priorità, le speranze e i timori della maggioranza della popolazione. Perché il referendum è uno strumento estremamente democratico. Certo, ha anche delle falle, cioè dei problemi, dei difetti, chiaramente, ma resta comunque uno specchio del volere del popolo. Uno specchio che riflette non solo le opinioni politiche, ma anche il modo in cui gli italiani immaginano l’Italia del domani.
L’Italia, nella storia, ha avuto diversi referendum che hanno segnato passaggi decisivi, dal dopoguerra fino a oggi. Alcuni hanno portato a cambiamenti importanti e significativi, che rendono orgogliosa una larga parte della popolazione; altri, invece, hanno mostrato quanto le opinioni possano essere influenzate da pregiudizi o dalla disinformazione.
Nell’episodio di oggi, ripercorreremo insieme alcuni di questi momenti importanti. Parleremo dei referendum più importanti della storia d’Italia, di quei referendum che hanno davvero cambiato le cose, che hanno contribuito, nel bene o nel male, in base ai punti di vista, a definire l’identità italiana, a definire chi siamo come Paese.
Prima di iniziare, comunque, ti ricordo che questo è un episodio di livello intermedio, o anche avanzato. Tuttavia, anche se hai un livello più basso, puoi metterti alla prova ed ascoltarlo lo stesso, perché no! A prescindere dal tuo livello, ti ricordo e ti consiglio vivamente di usare la trascrizione gratuita che prepariamo per te e che si trova sul nostro sito, podcastitaliano.com. La trascrizione contiene un glossario dettagliato che ti permetterà di imparare e capire un sacco di parole ed espressioni magari nuove per te. Trovi il link nelle note di questo episodio nell’app dove mi stai ascoltando: Spotify, Apple Podcast o qualsiasi app di podcast. Detto ciò, iniziamo.
Prima di tutto, vediamo di capire cos’è un referendum. Sono sicura che, tu che mi stai ascoltando, sai bene cosa sia un referendum. Ma se così non fosse, se magari sei minorenne o non ti interessa per niente la politica, o magari vivi da eremita su una montagna lontano dalla società e dalla comunità e sei felice, allora lascia che ti spieghi brevemente e in parole povere, senza usare paroloni troppo complicati, che cos’è un referendum.
Il referendum è un evento, un’occasione in cui i cittadini di un Paese vengono chiamati a votare, o meglio, a rispondere con un “sì” o con un “no” a un determinato quesito, che rappresenta poi una questione specifica. Il referendum è quindi uno strumento di democrazia diretta, perché permette al popolo di esprimere la propria opinione riguardo qualcosa senza passare per i parlamentari o altri intermediari. Ok?
In Italia esistono diversi tipi di referendum, fra cui due che sono i più frequenti, per così dire: il referendum abrogativo, che serve ad abrogare, ovvero annullare, cancellare una legge (o parte di una legge), e il referendum costituzionale, che invece serve ad approvare o respingere modifiche fatte alla Costituzione. Oggi ci concentriamo sui referendum abrogativi, che sono i più frequenti nella storia italiana.
Allora: l'articolo 75 della Costituzione italiana dice che il referendum abrogativo, quindi la votazione popolare per cancellare una legge o parte di essa, può essere richiesto o da 500.000 cittadini che firmano una proposta, oppure da almeno 5 Consigli regionali. Quindi, in pratica, se c’è una legge che non piace ai cittadini italiani, le soluzioni sono due: o le persone fanno una raccolta firme per annullarla e quando raggiungono 500.000 firme portano la loro proposta alla Corte costituzionale, oppure, senza fare questa raccolta firme, la stessa cosa possono fare 5 Consigli regionali (cioè gli organi legislativi di almeno 5 regioni italiane). Ok?
Quando questi 500.000 cittadini, o questi 5 consigli regionali, propongono un referendum abrogativo, la Corte Costituzionale deve decidere se questo referendum è accettabile, cioè, è ammissibile. Perché la corte può rifiutare il referendum, se ad esempio la domanda coinvolge delle leggi che non possono essere cancellate. Fra queste leggi rientrano anche quelle relative alle tasse, al bilancio dello Stato, le leggi di amnistia e indulto, cioè quelle leggi con cui lo Stato cancella o riduce le pene per certi reati. In pratica, con l’amnistia lo Stato decide che alcuni reati non verranno più puniti, mentre con l’indulto non si elimina il reato, ma si riduce la pena da scontare per chi lo ha commesso. Queste leggi non possono essere cancellate con un referendum perché toccano questioni molto delicate, che riguardano la giustizia e la sicurezza del Paese. In questi casi, la decisione resta sempre nelle mani del Parlamento. Ok?
Quindi il referendum può essere scartato, non accettato se riguarda queste leggi o se, per altri motivi, viene ritenuto inammissibile. Se invece il referendum viene accettato, si fissa una data: quel giorno i cittadini italiani vengono chiamati alle urne, cioè vengono chiamati a votare, per dire “sì” oppure “no”. Vuoi cancellare questa legge, o questo decreto? Metti una X sul sì. Se non vuoi cancellarla, metti una X sul no. Facile, no?
Peccato che il referendum abbia un grandissimo limite. Infatti, per rendere valido un referendum, non basta che vinca il “sì” o che vinca il “no”. Serve anche che vada a votare almeno la metà più uno di tutte le persone maggiorenni, cioè che hanno diritto al voto (diritto e dovere, aggiungerei). Facciamo un esempio semplice: immagina che in Italia ci siano 40 milioni di maggiorenni, quindi di persone che possono votare. Perché il referendum sia valido, devono andare a votare almeno 20 milioni di persone più uno. Se ci vanno solo 20 milioni di persone e quell’uno in più, quel giorno, non va a votare perché ha… che ne so, mal di stomaco, non si raggiunge il cosiddetto quorum, cioè il numero minimo di persone che devono andare a votare affinché un referendum sia valido. E anche se magari il 90% di chi ha votato ha detto “sì, voglio cancellare questa legge”, il referendum praticamente non conta ed è stato tutto un grande spreco di tempo, speranze e risorse.
Capisci perché il referendum abrogativo è anche tanto limitato, come strumento? Soprattutto se consideri che gli italiani hanno questo vizio, questo brutto vizio di dire “ah, io non vado a votare, tanto non serve a niente… tanto non cambia niente…”. Quindi, anche se molti cittadini vogliono cambiare qualcosa, se troppa gente non va a votare, il referendum fallisce automaticamente. Senza contare che molti politici convincono la gente a boicottare il voto, spesso, a non andare a votare, ad astenersi. Tra poco approfondiamo anche questo spiacevole e imbarazzante argomento.
Comunque, arriviamo alla parte interessante dell’episodio: quali sono stati i referendum più importanti nella storia d’Italia? Ora, forse l’espressione “storia d’Italia” è un po’ troppo vaga. In questo caso, quando parlo della storia d’Italia, parlo della storia della Repubblica Italiana, cioè dell’Italia così come la conosciamo oggi. E… indovina un po’? Questa storia inizia il 2 giugno del 1946, proprio con un referendum. Un tipo di referendum di cui non abbiamo parlato fino ad ora, perché è stata un’occasione unica, nel vero senso della parola. Sto parlando del referendum istituzionale, cioè un referendum che serve a decidere quale forma di Stato deve avere un Paese. In Italia ce n’è stato solo uno: quello del 2 giugno 1946.
L’Italia, infatti, non so se lo sai, è stata una monarchia fino al 1946. Prima ha regnato Vittorio Emanuele II, poi altri re, sempre suoi eredi. Uno degli ultimi re d’Italia è stato Vittorio Emanuele III, che ha regnato dal 1900 al 1946. E quindi, durante il fascismo, dal 1922 al 1943, in Italia, c’era ancora la monarchia. Però… diciamo che il ruolo della monarchia e del re è diventato sempre più debole, perché il potere era nelle mani di Mussolini. Allora, dopo il fascismo e dopo la Seconda guerra mondiale, molti italiani cominciano a pensare che la monarchia abbia, in qualche modo, favorito il fascismo e tutte le conseguenze di quella terribile dittatura. Perché, comunque, Vittorio Emanuele III non ha fermato Mussolini, almeno non all’inizio. Anzi: lo ha nominato presidente del Consiglio, non è intervenuto quando Mussolini ha eliminato la democrazia e, infine, ha firmato le leggi fasciste. Per tutti questi motivi e tanti altri, molti italiani dopo la guerra lo hanno ritenuto responsabile o, comunque, complice dello sviluppo del fascismo. Così, nel 1946, l’Italia affronta una scelta importantissima: gli italiani devono decidere se mantenere la monarchia o diventare una Repubblica. E nel 1946, attraverso un referendum, il 54% degli italiani vota a favore della Repubblica, mentre il 46% per la monarchia. C’è poco da fare: la maggioranza vota per la Repubblica e la Repubblica vince. Questo è il motivo per cui il 2 giugno di ogni anno, in Italia, è festa, dal 1946. È, appunto, la festa della Repubblica. In più quest’evento è importantissimo perché è la prima volta in cui le donne italiane esercitano il diritto di voto a livello nazionale.
Sala della Lupa. Palazzo di Montecitorio. È quella dove si è riunito per la prima volta a Roma il Parlamento italiano. Sono le 18 del 10 giugno. Ventidue anni fa, in questa data, i fascisti hanno ammazzato Matteotti. Sei anni fa, Mussolini ha dichiarato la guerra. Oggi, il Presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano, legge, alla presenza del governo e delle alte cariche, i risultati del referendum. Cerimonia breve, austera. Due contabili davanti al presidente hanno registrato sulle calcolatrici le cifre. L’uno quelle della monarchia, l’altro quelle della Repubblica. L’Italia è Repubblica.
Passiamo ai prossimi referendum che ci interessano, cioè quelli abrogativi. Premetto che sarà difficile fare una cernita, dato che dal 1946 fino ad oggi, in Italia, ci sono stati 83 referendum, fra cui 77 solo abrogativi. Ma ne vedremo solo alcuni, non ti preoccupare.
Partiamo dagli anni 70. Nel 1970, l’Italia approvò la legge sul divorzio, una novità importante in un Paese ancora molto legato ai valori tradizionali. Sennonché, nel 1974, si tenne un referendum per abrogare questa legge, cioè per cancellare la possibilità di divorzio. Questo referendum fu richiesto principalmente da gruppi e partiti conservatori, con un ruolo molto importante della Democrazia Cristiana e della Chiesa cattolica. Questi soggetti erano contrari al divorzio e volevano tornare a quando non c’era la possibilità legale di sciogliere il matrimonio. Il popolo italiano, però, votò a favore del divorzio, votò per mantenere il divorzio, con il 59,2% dei voti contro l’abrogazione, cioè l’annullamento della legge che rendeva il divorzio legale. Questo fu un momento storico molto importante perché dimostrò che gli italiani erano pronti a fare un passo avanti verso una società più moderna e consapevole dei diritti individuali.
Otto anni dopo, nel 1978, in Italia fu approvata la legge 194, che regolava l’interruzione volontaria di gravidanza, cioè l’aborto. Prima di quella legge, l’aborto era vietato e chi interrompeva una gravidanza rischiava punizioni molto gravi: in precedenza, una donna che praticava volontariamente l’aborto, così come chi la aiutava, rischiavano dai due ai cinque anni di prigione. Tra l’altro, secondo le statistiche dell’epoca, prima di questa legge, erano più di 3 milioni le donne che ogni anno ricorrevano a un aborto clandestino. Inutile a dirsi, la maggior parte di queste donne, moriva nelle ore successive, in modi diversi, in base alla tecnica, per così dire, a cui aveva fatto ricorso, cioè che aveva usato, insomma, per abortire clandestinamente. La legge 194 aveva introdotto delle regole precise: permetteva l’aborto entro i primi novanta giorni di gravidanza, con eccezioni di casi particolari. Per esempio se il feto aveva gravi malformazioni o se c’era un rischio per la salute della donna, allora si poteva abortire anche dopo i primi novanta giorni. E stabiliva inoltre procedure mediche e amministrative per garantire sicurezza, ma anche pene per chi non rispettava le regole. La legge cercava un equilibrio: permettere l’aborto, ma con delle regole. Nel 1981 ci furono due referendum, molto diversi fra loro, perché due gruppi, due partiti, volevano cambiare radicalmente questa legge, ma in modi opposti.
Il primo referendum fu promosso dal Partito Radicale, e qui la logica era questa: vogliamo togliere tutti i controlli, tutti gli adempimenti burocratici e le eventuali punizioni previste dalla legge 194. Era una posizione super liberale che, secondo loro, puntava a dare più libertà e autonomia alle donne. Il secondo referendum, al contrario, fu promosso dal Movimento per la Vita, un gruppo contrario all’aborto. Questo referendum voleva cancellare tutte le possibilità di aborto previste dalla legge 194, praticamente tornando a vietarlo quasi del tutto. In poche parole, se questo referendum fosse passato, l’aborto sarebbe diventato di nuovo illegale. Insomma, c’era in gioco qualcosa di enorme. Il risultato fu che la legge 194, sull’aborto, è rimasta intatta, perché nessuno dei due quesiti, delle due proposte, ha ottenuto abbastanza voti favorevoli. Quindi la legge 194 è rimasta in vigore senza modifiche. Fra i due litiganti, il terzo gode, come si suol dire.
E sempre nel 1981, si tenne un altro referendum abrogativo, questa volta sull’ergastolo, la pena detentiva a vita, cioè quando una persona va in prigione per sempre, senza uscire mai più. Anche qui, il referendum è stato proposto dal Partito Radicale, che richiedeva l'annullamento di questa legge e pena, la cancellazione dell’ergastolo. Tuttavia, la maggioranza degli italiani decise di mantenere l’ergastolo: il 77,4% dei votanti scelse di non abrogare la legge. Questo risultato ha dimostrato che, pur essendo sensibili ad alcuni diritti umani, gli italiani consideravano ancora necessario avere strumenti di giustizia severi per spaventare, magari prevenire, e soprattutto punire crimini molto gravi.
Come ho menzionato prima, sono troppi i referendum abrogativi che sono stati indetti in Italia e menzionarli tutti sarebbe impossibile, anche perché si tratta di argomenti di cui dovremmo parlare per ore. Voglio parlarti, però, di un paio di casi che mi sembrano un po’ emblematici, perché in tutti e due i casi non si è neanche raggiunto il quorum, cioè non è andata a votare abbastanza gente, e questo significa che le persone non hanno trovato i quesiti particolarmente importanti o influenti. Il che, secondo me, è una barzelletta. Perché fa ridere. Anzi, non fa ridere per niente, al massimo, fa piangere.
Il primo caso è il referendum del 15 giugno 2003, che riguardava principalmente i diritti dei lavoratori e, nello specifico, la possibilità di ottenere il reintegro sul posto di lavoro se si veniva licenziati senza una giusta causa. Questo significa che, se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, o almeno senza un motivo valido, poi sarebbe potuto tornare a lavorare. Questo si chiama reintegro. Il referendum serviva a abrogare, annullare, delle regole che non permettevano il reintegro, serviva quindi a dare più diritti ai lavoratori in caso di licenziamento ingiustificato. Ma indovina che cosa è successo? La maggior parte delle persone non è andata a votare. Quindi il quorum non è stato raggiunto e il referendum non è andato in porto. Anche se tutti quelli che hanno votato volevano cambiare le regole, la legge è rimasta come prima.
E questo è un po’ triste, perché come dice il primo articolo della Costituzione italiana, “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quando però dobbiamo votare per proteggere i nostri diritti legati al lavoro, non ci presentiamo alle urne. Senza contare che non è stata la prima né l’ultima volta che è successo qualcosa del genere: il caso più recente è quello del referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025. In quei giorni, gli italiani sono stati chiamati a votare per cinque quesiti abrogativi. Quattro di questi riguardavano il lavoro, tipo licenziamenti ingiustificati, contratti, indennità, e sicurezza sul lavoro, e uno riguardava la cittadinanza. Ora, non starò qui a menzionare tutti i quesiti, perché puoi trovarli facilmente su Internet e non avremmo tempo di analizzarli uno per uno, però ti assicuro che erano tutti quesiti molto importanti, che riguardano la vita quotidiana di tante persone. Eppure, alla fine, è successo qualcosa di poco sorprendente e, di nuovo, molto deludente: non è andata a votare abbastanza gente, quindi non si è raggiunto il quorum. Al referendum di quest’anno, purtroppo, l’affluenza è stata bassissima, meno del 30% della popolazione votante. Questo significa che più di 7 italiani su 10 non sono andati a votare. È deludente perché si trattava di temi che riguardano direttamente la vita e il lavoro delle persone, eppure la maggioranza ha deciso di non dire la propria. E non solo: molti politici, di cui non farò i nomi, hanno attivamente invitato i cittadini a non votare. Ad astenersi, a boicottare quello che secondo loro era un “referendum inutile”. Parliamo di politici che hanno invitato il popolo italiano ad andare al mare quel giorno, invece di andare a votare. Ci rendiamo conto?
È sconfortante, e imbarazzante. Non capisco come possa succedere che, quando si tratta di temi che ci riguardano da vicino, che riguardano la nostra vita quotidiana, la nostra pelle, così tante persone scelgano di non partecipare. È una delusione enorme. E spesso, chi non vota crede di essere anticonformista, un ribelle, uno che non si fa prendere in giro dallo Stato e dalle finte votazioni. O veramente queste persone non si rendono conto dell’importanza dello strumento del voto, perché hanno sempre avuto il diritto al voto, perché non hanno dovuto lottare per questo diritto. O magari, non gli è stata insegnata l’importanza del voto, a casa o a scuola. O ancora, forse, hanno paura di prendersi la responsabilità del proprio voto, di scegliere e sbagliare. Io questo non lo so e non lo capisco, so solo che l’Italia sa essere una vera e propria delusione, da questo punto di vista. Perché quando la democrazia non viene esercitata, tutti perdiamo: chi lavora, chi non lavora, chi vota, chi non vota. Tutti.
Quindi andare al mare o restare a casa quando si dovrebbe andare a votare, è sciocco. Chiudere un occhio, girarsi dall’altra parte, infilare la testa sotto la sabbia (scusate la lista di espressioni idiomatiche) non ci libera dalle nostre responsabilità. Perché, che lo vogliamo o no, facciamo parte di una comunità, di uno Stato, e le nostre decisioni lo plasmano tanto quanto le sue leggi influenzano la nostra vita quotidiana. Abbiamo un diritto che è anche un dovere: quello di partecipare. Che sfortuna, eh? Ma poteva andarci peggio: pensa se non avessimo avuto voce in capitolo, se dovevamo subire e accettare tutto, senza possibilità di cambiare le cose. Certo, è vero che non sempre possiamo cambiare le cose e che, a volte, è particolarmente difficile. Questo però non deve scoraggiarci dal provarci. Specialmente se non dobbiamo lottare fisicamente, ma ci basta andare a votare.
Comunque, detto questo, io ti saluto perché l’episodio di oggi finisce qui. Spero di non essere stata troppo noiosa. Anzi, fammi sapere con un commento se l’episodio ti è piaciuto. Se ti va, dimmi anche se nel tuo Paese la gente è felice di andare a votare o no. Sono molto curiosa di saperlo. Tra l’altro mi piace molto leggere i vostri commenti e rispondere poi, con calma. Quindi grazie davvero. E grazie anche per l’ascolto. Se ti va, condividi l’episodio, anche sui tuoi profili Instagram e Facebook, e magari taggaci, perché no! Io ti saluto, alla prossima. Ciao!
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Trascrizione interattiva dell'episodio
Ma, in fondo, cosa c’è di meglio della politica per conoscere veramente un Paese? Ad esempio, quale modo migliore di conoscere la mentalità italiana se non osservare i risultati dei referendum? I referendum sono infatti occasioni importantissime, in cui i cittadini devono scegliere concretamente, con un “sì” o “no”, quale piega deve prendere il futuro del Paese. E, analizzando quante persone e quali fasce d’età votano a favore o a sfavore di qualcosa, possiamo cogliere, capire molto più della semplice opinione politica della maggioranza: possiamo capire i valori, le priorità, le speranze e i timori della maggioranza della popolazione. Perché il referendum è uno strumento estremamente democratico. Certo, ha anche delle falle, cioè dei problemi, dei difetti, chiaramente, ma resta comunque uno specchio del volere del popolo. Uno specchio che riflette non solo le opinioni politiche, ma anche il modo in cui gli italiani immaginano l’Italia del domani.
L’Italia, nella storia, ha avuto diversi referendum che hanno segnato passaggi decisivi, dal dopoguerra fino a oggi. Alcuni hanno portato a cambiamenti importanti e significativi, che rendono orgogliosa una larga parte della popolazione; altri, invece, hanno mostrato quanto le opinioni possano essere influenzate da pregiudizi o dalla disinformazione.
Nell’episodio di oggi, ripercorreremo insieme alcuni di questi momenti importanti. Parleremo dei referendum più importanti della storia d’Italia, di quei referendum che hanno davvero cambiato le cose, che hanno contribuito, nel bene o nel male, in base ai punti di vista, a definire l’identità italiana, a definire chi siamo come Paese.
Prima di iniziare, comunque, ti ricordo che questo è un episodio di livello intermedio, o anche avanzato. Tuttavia, anche se hai un livello più basso, puoi metterti alla prova ed ascoltarlo lo stesso, perché no! A prescindere dal tuo livello, ti ricordo e ti consiglio vivamente di usare la trascrizione gratuita che prepariamo per te e che si trova sul nostro sito, podcastitaliano.com. La trascrizione contiene un glossario dettagliato che ti permetterà di imparare e capire un sacco di parole ed espressioni magari nuove per te. Trovi il link nelle note di questo episodio nell’app dove mi stai ascoltando: Spotify, Apple Podcast o qualsiasi app di podcast. Detto ciò, iniziamo.
Prima di tutto, vediamo di capire cos’è un referendum. Sono sicura che, tu che mi stai ascoltando, sai bene cosa sia un referendum. Ma se così non fosse, se magari sei minorenne o non ti interessa per niente la politica, o magari vivi da eremita su una montagna lontano dalla società e dalla comunità e sei felice, allora lascia che ti spieghi brevemente e in parole povere, senza usare paroloni troppo complicati, che cos’è un referendum.
Il referendum è un evento, un’occasione in cui i cittadini di un Paese vengono chiamati a votare, o meglio, a rispondere con un “sì” o con un “no” a un determinato quesito, che rappresenta poi una questione specifica. Il referendum è quindi uno strumento di democrazia diretta, perché permette al popolo di esprimere la propria opinione riguardo qualcosa senza passare per i parlamentari o altri intermediari. Ok?
In Italia esistono diversi tipi di referendum, fra cui due che sono i più frequenti, per così dire: il referendum abrogativo, che serve ad abrogare, ovvero annullare, cancellare una legge (o parte di una legge), e il referendum costituzionale, che invece serve ad approvare o respingere modifiche fatte alla Costituzione. Oggi ci concentriamo sui referendum abrogativi, che sono i più frequenti nella storia italiana.
Allora: l'articolo 75 della Costituzione italiana dice che il referendum abrogativo, quindi la votazione popolare per cancellare una legge o parte di essa, può essere richiesto o da 500.000 cittadini che firmano una proposta, oppure da almeno 5 Consigli regionali. Quindi, in pratica, se c’è una legge che non piace ai cittadini italiani, le soluzioni sono due: o le persone fanno una raccolta firme per annullarla e quando raggiungono 500.000 firme portano la loro proposta alla Corte costituzionale, oppure, senza fare questa raccolta firme, la stessa cosa possono fare 5 Consigli regionali (cioè gli organi legislativi di almeno 5 regioni italiane). Ok?
Quando questi 500.000 cittadini, o questi 5 consigli regionali, propongono un referendum abrogativo, la Corte Costituzionale deve decidere se questo referendum è accettabile, cioè, è ammissibile. Perché la corte può rifiutare il referendum, se ad esempio la domanda coinvolge delle leggi che non possono essere cancellate. Fra queste leggi rientrano anche quelle relative alle tasse, al bilancio dello Stato, le leggi di amnistia e indulto, cioè quelle leggi con cui lo Stato cancella o riduce le pene per certi reati. In pratica, con l’amnistia lo Stato decide che alcuni reati non verranno più puniti, mentre con l’indulto non si elimina il reato, ma si riduce la pena da scontare per chi lo ha commesso. Queste leggi non possono essere cancellate con un referendum perché toccano questioni molto delicate, che riguardano la giustizia e la sicurezza del Paese. In questi casi, la decisione resta sempre nelle mani del Parlamento. Ok?
Quindi il referendum può essere scartato, non accettato se riguarda queste leggi o se, per altri motivi, viene ritenuto inammissibile. Se invece il referendum viene accettato, si fissa una data: quel giorno i cittadini italiani vengono chiamati alle urne, cioè vengono chiamati a votare, per dire “sì” oppure “no”. Vuoi cancellare questa legge, o questo decreto? Metti una X sul sì. Se non vuoi cancellarla, metti una X sul no. Facile, no?
Peccato che il referendum abbia un grandissimo limite. Infatti, per rendere valido un referendum, non basta che vinca il “sì” o che vinca il “no”. Serve anche che vada a votare almeno la metà più uno di tutte le persone maggiorenni, cioè che hanno diritto al voto (diritto e dovere, aggiungerei). Facciamo un esempio semplice: immagina che in Italia ci siano 40 milioni di maggiorenni, quindi di persone che possono votare. Perché il referendum sia valido, devono andare a votare almeno 20 milioni di persone più uno. Se ci vanno solo 20 milioni di persone e quell’uno in più, quel giorno, non va a votare perché ha… che ne so, mal di stomaco, non si raggiunge il cosiddetto quorum, cioè il numero minimo di persone che devono andare a votare affinché un referendum sia valido. E anche se magari il 90% di chi ha votato ha detto “sì, voglio cancellare questa legge”, il referendum praticamente non conta ed è stato tutto un grande spreco di tempo, speranze e risorse.
Capisci perché il referendum abrogativo è anche tanto limitato, come strumento? Soprattutto se consideri che gli italiani hanno questo vizio, questo brutto vizio di dire “ah, io non vado a votare, tanto non serve a niente… tanto non cambia niente…”. Quindi, anche se molti cittadini vogliono cambiare qualcosa, se troppa gente non va a votare, il referendum fallisce automaticamente. Senza contare che molti politici convincono la gente a boicottare il voto, spesso, a non andare a votare, ad astenersi. Tra poco approfondiamo anche questo spiacevole e imbarazzante argomento.
Comunque, arriviamo alla parte interessante dell’episodio: quali sono stati i referendum più importanti nella storia d’Italia? Ora, forse l’espressione “storia d’Italia” è un po’ troppo vaga. In questo caso, quando parlo della storia d’Italia, parlo della storia della Repubblica Italiana, cioè dell’Italia così come la conosciamo oggi. E… indovina un po’? Questa storia inizia il 2 giugno del 1946, proprio con un referendum. Un tipo di referendum di cui non abbiamo parlato fino ad ora, perché è stata un’occasione unica, nel vero senso della parola. Sto parlando del referendum istituzionale, cioè un referendum che serve a decidere quale forma di Stato deve avere un Paese. In Italia ce n’è stato solo uno: quello del 2 giugno 1946.
L’Italia, infatti, non so se lo sai, è stata una monarchia fino al 1946. Prima ha regnato Vittorio Emanuele II, poi altri re, sempre suoi eredi. Uno degli ultimi re d’Italia è stato Vittorio Emanuele III, che ha regnato dal 1900 al 1946. E quindi, durante il fascismo, dal 1922 al 1943, in Italia, c’era ancora la monarchia. Però… diciamo che il ruolo della monarchia e del re è diventato sempre più debole, perché il potere era nelle mani di Mussolini. Allora, dopo il fascismo e dopo la Seconda guerra mondiale, molti italiani cominciano a pensare che la monarchia abbia, in qualche modo, favorito il fascismo e tutte le conseguenze di quella terribile dittatura. Perché, comunque, Vittorio Emanuele III non ha fermato Mussolini, almeno non all’inizio. Anzi: lo ha nominato presidente del Consiglio, non è intervenuto quando Mussolini ha eliminato la democrazia e, infine, ha firmato le leggi fasciste. Per tutti questi motivi e tanti altri, molti italiani dopo la guerra lo hanno ritenuto responsabile o, comunque, complice dello sviluppo del fascismo. Così, nel 1946, l’Italia affronta una scelta importantissima: gli italiani devono decidere se mantenere la monarchia o diventare una Repubblica. E nel 1946, attraverso un referendum, il 54% degli italiani vota a favore della Repubblica, mentre il 46% per la monarchia. C’è poco da fare: la maggioranza vota per la Repubblica e la Repubblica vince. Questo è il motivo per cui il 2 giugno di ogni anno, in Italia, è festa, dal 1946. È, appunto, la festa della Repubblica. In più quest’evento è importantissimo perché è la prima volta in cui le donne italiane esercitano il diritto di voto a livello nazionale.
Sala della Lupa. Palazzo di Montecitorio. È quella dove si è riunito per la prima volta a Roma il Parlamento italiano. Sono le 18 del 10 giugno. Ventidue anni fa, in questa data, i fascisti hanno ammazzato Matteotti. Sei anni fa, Mussolini ha dichiarato la guerra. Oggi, il Presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano, legge, alla presenza del governo e delle alte cariche, i risultati del referendum. Cerimonia breve, austera. Due contabili davanti al presidente hanno registrato sulle calcolatrici le cifre. L’uno quelle della monarchia, l’altro quelle della Repubblica. L’Italia è Repubblica.
Passiamo ai prossimi referendum che ci interessano, cioè quelli abrogativi. Premetto che sarà difficile fare una cernita, dato che dal 1946 fino ad oggi, in Italia, ci sono stati 83 referendum, fra cui 77 solo abrogativi. Ma ne vedremo solo alcuni, non ti preoccupare.
Partiamo dagli anni 70. Nel 1970, l’Italia approvò la legge sul divorzio, una novità importante in un Paese ancora molto legato ai valori tradizionali. Sennonché, nel 1974, si tenne un referendum per abrogare questa legge, cioè per cancellare la possibilità di divorzio. Questo referendum fu richiesto principalmente da gruppi e partiti conservatori, con un ruolo molto importante della Democrazia Cristiana e della Chiesa cattolica. Questi soggetti erano contrari al divorzio e volevano tornare a quando non c’era la possibilità legale di sciogliere il matrimonio. Il popolo italiano, però, votò a favore del divorzio, votò per mantenere il divorzio, con il 59,2% dei voti contro l’abrogazione, cioè l’annullamento della legge che rendeva il divorzio legale. Questo fu un momento storico molto importante perché dimostrò che gli italiani erano pronti a fare un passo avanti verso una società più moderna e consapevole dei diritti individuali.
Otto anni dopo, nel 1978, in Italia fu approvata la legge 194, che regolava l’interruzione volontaria di gravidanza, cioè l’aborto. Prima di quella legge, l’aborto era vietato e chi interrompeva una gravidanza rischiava punizioni molto gravi: in precedenza, una donna che praticava volontariamente l’aborto, così come chi la aiutava, rischiavano dai due ai cinque anni di prigione. Tra l’altro, secondo le statistiche dell’epoca, prima di questa legge, erano più di 3 milioni le donne che ogni anno ricorrevano a un aborto clandestino. Inutile a dirsi, la maggior parte di queste donne, moriva nelle ore successive, in modi diversi, in base alla tecnica, per così dire, a cui aveva fatto ricorso, cioè che aveva usato, insomma, per abortire clandestinamente. La legge 194 aveva introdotto delle regole precise: permetteva l’aborto entro i primi novanta giorni di gravidanza, con eccezioni di casi particolari. Per esempio se il feto aveva gravi malformazioni o se c’era un rischio per la salute della donna, allora si poteva abortire anche dopo i primi novanta giorni. E stabiliva inoltre procedure mediche e amministrative per garantire sicurezza, ma anche pene per chi non rispettava le regole. La legge cercava un equilibrio: permettere l’aborto, ma con delle regole. Nel 1981 ci furono due referendum, molto diversi fra loro, perché due gruppi, due partiti, volevano cambiare radicalmente questa legge, ma in modi opposti.
Il primo referendum fu promosso dal Partito Radicale, e qui la logica era questa: vogliamo togliere tutti i controlli, tutti gli adempimenti burocratici e le eventuali punizioni previste dalla legge 194. Era una posizione super liberale che, secondo loro, puntava a dare più libertà e autonomia alle donne. Il secondo referendum, al contrario, fu promosso dal Movimento per la Vita, un gruppo contrario all’aborto. Questo referendum voleva cancellare tutte le possibilità di aborto previste dalla legge 194, praticamente tornando a vietarlo quasi del tutto. In poche parole, se questo referendum fosse passato, l’aborto sarebbe diventato di nuovo illegale. Insomma, c’era in gioco qualcosa di enorme. Il risultato fu che la legge 194, sull’aborto, è rimasta intatta, perché nessuno dei due quesiti, delle due proposte, ha ottenuto abbastanza voti favorevoli. Quindi la legge 194 è rimasta in vigore senza modifiche. Fra i due litiganti, il terzo gode, come si suol dire.
E sempre nel 1981, si tenne un altro referendum abrogativo, questa volta sull’ergastolo, la pena detentiva a vita, cioè quando una persona va in prigione per sempre, senza uscire mai più. Anche qui, il referendum è stato proposto dal Partito Radicale, che richiedeva l'annullamento di questa legge e pena, la cancellazione dell’ergastolo. Tuttavia, la maggioranza degli italiani decise di mantenere l’ergastolo: il 77,4% dei votanti scelse di non abrogare la legge. Questo risultato ha dimostrato che, pur essendo sensibili ad alcuni diritti umani, gli italiani consideravano ancora necessario avere strumenti di giustizia severi per spaventare, magari prevenire, e soprattutto punire crimini molto gravi.
Come ho menzionato prima, sono troppi i referendum abrogativi che sono stati indetti in Italia e menzionarli tutti sarebbe impossibile, anche perché si tratta di argomenti di cui dovremmo parlare per ore. Voglio parlarti, però, di un paio di casi che mi sembrano un po’ emblematici, perché in tutti e due i casi non si è neanche raggiunto il quorum, cioè non è andata a votare abbastanza gente, e questo significa che le persone non hanno trovato i quesiti particolarmente importanti o influenti. Il che, secondo me, è una barzelletta. Perché fa ridere. Anzi, non fa ridere per niente, al massimo, fa piangere.
Il primo caso è il referendum del 15 giugno 2003, che riguardava principalmente i diritti dei lavoratori e, nello specifico, la possibilità di ottenere il reintegro sul posto di lavoro se si veniva licenziati senza una giusta causa. Questo significa che, se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, o almeno senza un motivo valido, poi sarebbe potuto tornare a lavorare. Questo si chiama reintegro. Il referendum serviva a abrogare, annullare, delle regole che non permettevano il reintegro, serviva quindi a dare più diritti ai lavoratori in caso di licenziamento ingiustificato. Ma indovina che cosa è successo? La maggior parte delle persone non è andata a votare. Quindi il quorum non è stato raggiunto e il referendum non è andato in porto. Anche se tutti quelli che hanno votato volevano cambiare le regole, la legge è rimasta come prima.
E questo è un po’ triste, perché come dice il primo articolo della Costituzione italiana, “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quando però dobbiamo votare per proteggere i nostri diritti legati al lavoro, non ci presentiamo alle urne. Senza contare che non è stata la prima né l’ultima volta che è successo qualcosa del genere: il caso più recente è quello del referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025. In quei giorni, gli italiani sono stati chiamati a votare per cinque quesiti abrogativi. Quattro di questi riguardavano il lavoro, tipo licenziamenti ingiustificati, contratti, indennità, e sicurezza sul lavoro, e uno riguardava la cittadinanza. Ora, non starò qui a menzionare tutti i quesiti, perché puoi trovarli facilmente su Internet e non avremmo tempo di analizzarli uno per uno, però ti assicuro che erano tutti quesiti molto importanti, che riguardano la vita quotidiana di tante persone. Eppure, alla fine, è successo qualcosa di poco sorprendente e, di nuovo, molto deludente: non è andata a votare abbastanza gente, quindi non si è raggiunto il quorum. Al referendum di quest’anno, purtroppo, l’affluenza è stata bassissima, meno del 30% della popolazione votante. Questo significa che più di 7 italiani su 10 non sono andati a votare. È deludente perché si trattava di temi che riguardano direttamente la vita e il lavoro delle persone, eppure la maggioranza ha deciso di non dire la propria. E non solo: molti politici, di cui non farò i nomi, hanno attivamente invitato i cittadini a non votare. Ad astenersi, a boicottare quello che secondo loro era un “referendum inutile”. Parliamo di politici che hanno invitato il popolo italiano ad andare al mare quel giorno, invece di andare a votare. Ci rendiamo conto?
È sconfortante, e imbarazzante. Non capisco come possa succedere che, quando si tratta di temi che ci riguardano da vicino, che riguardano la nostra vita quotidiana, la nostra pelle, così tante persone scelgano di non partecipare. È una delusione enorme. E spesso, chi non vota crede di essere anticonformista, un ribelle, uno che non si fa prendere in giro dallo Stato e dalle finte votazioni. O veramente queste persone non si rendono conto dell’importanza dello strumento del voto, perché hanno sempre avuto il diritto al voto, perché non hanno dovuto lottare per questo diritto. O magari, non gli è stata insegnata l’importanza del voto, a casa o a scuola. O ancora, forse, hanno paura di prendersi la responsabilità del proprio voto, di scegliere e sbagliare. Io questo non lo so e non lo capisco, so solo che l’Italia sa essere una vera e propria delusione, da questo punto di vista. Perché quando la democrazia non viene esercitata, tutti perdiamo: chi lavora, chi non lavora, chi vota, chi non vota. Tutti.
Quindi andare al mare o restare a casa quando si dovrebbe andare a votare, è sciocco. Chiudere un occhio, girarsi dall’altra parte, infilare la testa sotto la sabbia (scusate la lista di espressioni idiomatiche) non ci libera dalle nostre responsabilità. Perché, che lo vogliamo o no, facciamo parte di una comunità, di uno Stato, e le nostre decisioni lo plasmano tanto quanto le sue leggi influenzano la nostra vita quotidiana. Abbiamo un diritto che è anche un dovere: quello di partecipare. Che sfortuna, eh? Ma poteva andarci peggio: pensa se non avessimo avuto voce in capitolo, se dovevamo subire e accettare tutto, senza possibilità di cambiare le cose. Certo, è vero che non sempre possiamo cambiare le cose e che, a volte, è particolarmente difficile. Questo però non deve scoraggiarci dal provarci. Specialmente se non dobbiamo lottare fisicamente, ma ci basta andare a votare.
Comunque, detto questo, io ti saluto perché l’episodio di oggi finisce qui. Spero di non essere stata troppo noiosa. Anzi, fammi sapere con un commento se l’episodio ti è piaciuto. Se ti va, dimmi anche se nel tuo Paese la gente è felice di andare a votare o no. Sono molto curiosa di saperlo. Tra l’altro mi piace molto leggere i vostri commenti e rispondere poi, con calma. Quindi grazie davvero. E grazie anche per l’ascolto. Se ti va, condividi l’episodio, anche sui tuoi profili Instagram e Facebook, e magari taggaci, perché no! Io ti saluto, alla prossima. Ciao!
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